Bernardelli P6

Scheda di Frank A. Mancuso

 

Questa è un'altra scheda atipica, ma ho fiducia che la disponibilità dei visitatori vorrà darle benigna accoglienza.

Atipica perché l'arma è stata per diversi anni nella fondina di un'uniforme, ma non appartenendo ad un esercito o ad un corpo di polizia, bensì ad una bella signora, guardia particolare giurata.

Ho già esposto, nella pagina di introduzione, i motivi che mi hanno spinto a dare un mio piccolo e personale riconoscimento alle g.p.g., e vedremo tra breve che a volte anche le armi di cui devono dotarsi non aiutano a migliorare le loro condizioni di lavoro.

Cerchiamo quindi di ripercorrere la strada lungo la quale si è evoluta la semiautomatica oggetto di queste note, prima di passare ad una sua descrizione.

La fondazione di quella che fu la Ditta Vincenzo Bernardelli risale al 1865 [1], ad opera dell'omonimo fondatore che fino al 1860 ha lavorato come operaio presso la Franzini, una delle principali aziende dell’intero distretto, che in quella data cessa le sue attività.

Nella valle del Mella sino ad allora sono state attive centinaia di piccole officine, incapaci, singolarmente, di far fronte a carichi produttivi importanti; esse tirano avanti sin dai tempi della dominazione veneziana grazie all'attività di poche ed importanti famiglie, proprietarie degli opifici di maggiori dimensioni, che a loro subappaltano una parte importante del lavoro che riescono ad assicurarsi.

All'Unità d'Italia del 1861 hanno fatto seguito innanzi tutto lo scuotimento degli equilibri economici e politici, anche locali, e poi, in vista della costituzione di un esercito nazionale, politiche favorevoli alla produzione armiera, politiche che comportano, tre le altre conseguenze, l'espansione dell'Arsenale di Gardone.

Nel 1865, Vincenzo Bernardelli, all'età di 36 anni, riesce quindi a mettersi in proprio, grazie alla necessità dell'Arsenale di affidare comunque all’esterno buona parte della sua produzione. Negli anni successivi, grazie anche alla lungimiranza del fondatore, che nel frattempo ha educato i suoi quattro figli a seguire ognuno uno specifico processo produttivo, la Ditta riesce in autonomia a produrre fucili completi per il mercato civile.

Sul finire del XIX Secolo la Fabbrica d'Armi Vincenzo Bernardelli perde il suo fondatore (scomparso nel 1899), ma è divenuta una realtà ben strutturata, a conduzione familiare, in grado di produrre fucili da caccia per il mercato civile e canne per l'Arsenale di Gardone, e già nel 1908 deve espandere le proprie dimensioni, trasferendosi in uno stabilimento già sede di un'azienda tessile, posto al confine settentrionale di Gardone.

Sin dall'inizio del conflitto, la Bernardelli contribuisce significativamente allo sforzo bellico, a cui viene chiamato l'intero distretto produttivo gardonese, con la produzione di parti destinate alle armi modello '91 ed alle rivoltelle modello 1889, commissionate dall’Arsenale, per riprendere la produzione civile al termine delle ostilità.

La produzione di interesse militare riprende negli anni '30, sia continuando a fornire l'Arsenale di Gardone, ma anche superando i confini della Val Trompia, acquisendo contratti di riarsenalizzazione delle mitragliatrici SIA dal Ministero della Guerra, di costruzione di oliatori e regolatori di cadenza per le mitragliatrici FIAT 1914 e 1935, di parti per le mitragliatrici Breda.

Poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale il personale impiegato nella Ditta raggiunge le 400 unità (numero destinato a più che raddoppiarsi, per motivi ovvii, durante le ostilità), e gli utili che provengono dall'incremento delle attività vengono reinvestiti realizzando una linea di produzione per la realizzazione di spolette per proiettili d'artiglieria.

Questo prodotto susciterà l’interesse diretto dei militari tedeschi durante l'esistenza della RSI, che ne commissioneranno al ritmo di 100.000 ogni mese, e non a caso: tra le produzioni militari, questo è l'unica nella quale la Ditta può vantare specifiche competenze, essendosi limitata, nelle altre attività, a realizzare sempre gli stessi semilavorati ed i medesimi pezzi in conto terzi d’un armamento comunque complessivamente obsoleto, anche se in numero sempre maggiore.

Tale aspetto differenzia in modo sostanziale Bernardelli dal suo principale concorrante, ovvero Beretta, che, al contrario di Bernardelli, ha sviluppato il proprio livello di conoscenze diventando capace anche di progettare, oltre che di costruire, nuove armi.

Il MAB 38A è l'esempio migliore di tale capacità.

Al termine del secondo conflitto mondiale, in mancanza di richieste dal settore militare, le aziende del settore armiero sopravvivono riducendo il personale e riprendendo la produzione di armi civili sportive e per la difesa personale.

Cosa che avviene anche in casa Bernardelli.

Si comincia con una piccola semiautomatica tascabile in 25 ACP, illustrata nella foto che segue. La foto ritrae un esemplare prodotto nel 1949, e non è mia, ma la pubblico grazie alla cortesia di Ed Buffaloe, che sul suo sito ha pubblicato una bella scheda dedicata a quest'arma ed a quelle che chiameremmo, in "legalese", successive modificazioni.

La mia, anzi, le mie sono ritratte qui sotto: 22 Short a sinistra, 25 ACP a destra. Notare le differenze tra i carrelli, aperto e più leggero quello a sinistra, chiuso e meno leggero (dire più pesante mi sembra eccessivo) quello a destra, differenze destinate a gestire opportunamente le due diverse munizioni.

Per realizzarla Bernardelli si è ispirato ad un'altra minuscola semiautomatica nello stesso calibro prodotta da Walther tra il 1921 ed il 1945, nota tra i collezionisti come "modello 9", e che ricorda molto la Browning Baby (prodotta però solo a partire dal 1932).

Con una buona cura ricostituente la mini-pistola cresce e si trasforma nella semiautomatica raffigurata qui sotto, in calibro 7,65 mm Browning.

Come appare sullo stringato foglietto di istruzioni che accompagna l'arma, essa viene identificata solo con il calibro, non le si attribuisce nemmeno un nome o un modello.

Appiano per comodità la indica come "modello 1947", dall'anno di introduzione sul mercato, altri si riferiscono ad essa indicandola come "modello 1948", ma siamo lì.

Nel 1949 verrà affiancato da una versione in calibro 22 l.r. che si distingue dalle armi precedenti per le guancette in legno e per la disponibilità di canne in varia lunghezza, con mire regolabili.

Nel 1950, un tentativo di realizzarne una versione in 9 mm Parabellum non supera lo stadio di prototipo.

L'impostazione della "modello 1947" è molto vicina a quella classica introdotta da Browning col suo modello 10.

Ma lo smontaggio della Barnardelli, come insegna il già citato foglio illustrativo, può essere effettuato solo dopo aver liberato un elemento che trattiene posteriormente la molla del percussore, dato che la canna è spinata al fusto, e per l'ordinaria scomposizione la sua rimozione non è necessaria (a tutto vantaggio della precisione di tiro, a saperla sfruttare).

Ed è in questo che l'arma conserva il ricordo della microscopica Walther modello 9, mutuato attraverso la sorella maggiore, di dimensioni e calibro minori.

Una pausa per sottolineare un paio di cose. 

In primo luogo, nell'ormai noto pieghevole, il riferimento al caricatore maggiorato da 17 colpi, disponibile per il calibro 7,65 mm Browning, ci fa ricordare che siamo in quegli anni burrascosi durante i quali il bolognese Cesare Lercker pensava per preoccupati imprenditori i suoi "mitrini" in 6,35 Browning con caricatore da 25 colpi.

In secondo luogo, la Bernardelli, come si è già detto, non ha ancora sviluppato le sue capacità fino al punto di poter anche progettare nuove armi, ed all'epoca la conoscenza delle lingue non è poi così estesa, quindi l'accesso ai contenuti di  pubblicazioni estere pressoché impossibile, anche ad averne a disposizione; non resta quindi che copiare le armi che la guerra ha portato in Val Trompia, come anni dopo, ormai anima commerciale della sua azienda, testimonierà lo stesso Ciso Bernardelli.

Come ulteriore esempio si ricordi il fucile da caccia semiautomatico proposto dalla stessa Ditta, chiaramente ispirato al Tokarev russo, anche se, rispetto a quello, privo del sistema di presa e recupero dei gas di sparo.

Il modello che affianca nel 1959 la semiautomatica "1948" (e che nel 1966 la sostituirà definitivamente) appare battezzato, stavolta anche ufficialmente, come "Modello 60".

La non piccola innovazione è il cane esterno, che prende il posto del percussore lanciato; inoltre dopo aver tirato l'ultimo colpo il carrello resta in apertura, dato che la sua corsa in avanti è impedita dall'elevatore di un caricatore ormai vuoto.

Viene anche introdotta la sicura al caricatore. 

Restano invariate le altre caratteristiche sostanziali dell'arma, e quel che ne risulta sembra rincorrere, nella categoria, più la Beretta 31, che ha quasi trent'anni, che non la concorrente principale, ovvero la Beretta 70, presentata al mercato l'anno precedente.

Anche così, la modello 60 viene accolta con dignitoso favore da parte del pubblico, ed arriva sin quasi ai nostri giorni.

Disponendo ora di una modello 60, tra l'altro con fusto in acciaio, avrei potuto rimuovere l'immagine che ho riportato qui sopra, scansionata da un vecchio catalogo, ma ho preferito lasciarla poiché inserita nella versione originaria della scheda, ed aggiungerne una nuova.

Allo stesso modo, ho preferito lasciare l'immagine del modello AMR, che appare a cavallo del cambio di decennio, che altro non è se non la versione della modello 60 con canna da 150 mm, ma destinata al mercato statunitense e quindi con il fusto solo in acciaio e la canna allungata a ... 153 mm!

Quasi contemporaneamente appare il modello U.S.A. che contiene nel nome le sue aspirazioni al mercato d'oltreoceano.

Rispetto alla versione "tascabile" del modello 60, la tacca di mira del modello AMR è regolabile, ed il mirino è montato su una rampa fissata all'estremità della canna mediante una ghiera filettata.

Il calibro è il 7,65 mm Browning, e, nel defunto Catalogo Nazionale delle Armi Comuni da Sparo, era una delle poche armi in tale calibro ad essere classificata come sportiva.

Altra arma sportiva derivata dalla 60 è la 69, ma in tal caso le modifiche sono più importanti.

Disponibile in calibro 22 l.r., per diversi lustri divide con la Beretta 76 la fascia di mercato delle armi adatte a tirare nella categoria "Pistola Standard", quella che al tempo raccoglie la maggior parte dei frequentatori delle sezioni del TSN.

Arrivando finalmente all'arma che è oggetto di queste note, in calibro 9 mm Browning Short, essa risulta essere stata iscritta al Catalogo Nazionale nel 1994, al numero 8610, insieme a due sue altre versioni nei calibri 7,65 Browning (8609) e 22 l.r. (8611).

L'esemplare qui raffigurato è passato al Banco di Prova di Gardone V.T. nel 1995.

Un anno più triste degli altri per la famiglia Bernardelli, il 1995, perché risale a quell'anno l'ultimo bilancio approvato da un consiglio di amministrazione di sua espressione.

Molte le traversie che hanno accompagnato la Ditta fino a quella data; una generale contrazione del mercato, civile e militare, intorno al 1980; l'interruzione della fornitura di spolette alla BPD Difesa e Spazio (1984); la svalutazione del dollaro (1985) e le conseguenti perdite nei pagamenti dei contratti con l'estero; la sospensione, in seguito allo scandalo Irangate, delle licenze di esportazione di materiali d'armamento dal 1986 fino al 1988; sulla scia dello stesso scandalo, un clima di violentemente compromessa serenità voluto da organizzazioni "pacifiste" attraverso pressioni sull'opinione pubblica e sulle forze politiche; la vendita forzata del complesso produttivo più evoluto, per far fronte ad un finanziamento ottenuto dall'IMI (1990); l'esito, negativo per Bernardelli, di una gara nella quale la Ditta aveva riposto molte speranze, e molto aveva investito, quella per la scelta del nuovo fucile d'assalto per l'Esercito Italiano (1992).

Poi, all'inizio del 1996, mentre la Ditta sta facendo importanti investimenti per dar seguito ad un accordo per produrre di fucili per uno dei nomi più importanti del settore armiero mondiale, ovvero Remington, l'INPS, con uno zelo che la stessa famiglia definisce come "inspiegabile", presenta al tribunale di Brescia un'ingiunzione di fallimento. La sentenza viene depositata il 9 Aprile 1997, e lo stesso giorno alla Sede dell'azienda vengono apposti i sigilli.

Dopo varie vicissitudini, all'inizio del 1998 la Sarsilmaz A.S. di Istanbul viene dichiarata vincitrice dell'asta che ha per oggetto macchinari, brevetti e marchi dell'azienda, e circa un anno dopo l'attività riprende, non senza bisogno di un significativo rodaggio, in uno stabilimento, quello di Torbole Casaglia, acquistato per quello scopo.

Non c'è da meravigliarsi se nella prima metà degli anni '90, per cercare di risvegliare l'attenzione del mercato proponendo un prodotto che abbia qualcosa di nuovo, non potendo fare ulteriori investimenti, in Ditta ci si arrangia come si può, con quello che si ha.

Ed è così che la vecchia 60 deve essersi mutata in P6.

La P6 mantiene il cane esterno della 60, e i due pistoncini in materiale sintetico disposti sotto la canna spinti da altrettante molle a spirale, pensati per ammortizzare l'arresto a fondo corsa del carrello.

E' un accorgimento già presente sul modello "1948" (nel quale i pistoncini sono di acciaio).

Funzionare debbono funzionare, sia per la relativa dolcezza percepita allo sparo, sia perché il carrello della P6 è il più leggero (circa 180 grammi) che mi è capitato di pesare, delle armi in 9 mm Browning Short che mi sono passate per le mani.

Una delle modifiche che distinguono la 60 dalla P6 è lo spostamento del dente di arresto del caricatore dal fondo dell'impugnatura alla base della guardia del grilletto.

Dal lato opposto del dente di arresto, il pulsante che, premuto, libera il caricatore, e che può essere posizionato, a scelta, sia sul lato destro che su quello sinistro del fusto.

O, almeno, così sembra di poter concludere, osservando i due scassi simmetrici realizzati sul caricatore, dato che questa possibilità non è pubblicizzata sulla triste e striminzita fotocopia, evidentemente realizzata partendo da un documento simile nato per la modello 60, in modo casareccio, più che artigianale, e che accompagna l'arma in veste di "manuale".

Comunque sia, anche spostando il pulsante da un lato all'altro, la sicura non può che rimanere dove si trova...

Per far posto al pulsante di sgancio del caricatore si rinuncia alla sicura al caricatore.

 

Date le critiche che accompagnano questo dispositivo di sicurezza quando un'arma ne è dotata, la sua sparizione sulla P6 non suscita più di tante perplessità.

Lo spostamento del fermo del caricatore ne giustifica di ben più importanti.

Almeno sugli esemplari in calibro 9 Corto (come quello ritratto in queste immagini) infatti può succedere che, salendo le munizioni nel caricatore, i proiettili possano andare ad inserirsi ben bene nello spazio destinato ad ospitare il dente di arresto del caricatore,

e se il dente di arresto viene spostato troppo verso l'esterno, il caricatore si libera e cade in terra, evento segnalato da più di un possessore del suddetto modello di arma!

Almeno con certi profili di proiettile l'evento non è così infrequente, ed è sempre sconcertante.

E pensare che il fusto continua ad essere lavorato come se dovesse ospitare il vecchio dente di ritegno, forse scomodo da azionare, ma che ha dimostrato di essere a prova di tutto, tanto da essere stato ancora presente sino a pochi anni fa su diverse pistole militari.

Come se non bastasse, si passa a modificare anche la leva della sicura, ed anche in questo caso i risultati ottenuti sono quanto meno discutibili.

La nuova si inserisce abbassandola, e così facendo anche la barra di scatto si abbassa, come se fosse intervenuto il disconnettitore.

La vecchia, ovvero quella della 60, si inserisce alzandola, e così facendo, con un suo dentino, va ad impedire lo spostamento all'indietro della barra di scatto.

Qui sotto le due leve della sicura, a sinistra quella della 60, a destra quella della P6.

La modifica della sicura comporta anche la modifica della guancetta sinistra.

Ma non è per questo che ho definito i risultati come "discutibili".

L'ho scritto, invece, in primo luogo perché nel caso della P6 è necessario spostare la leva verso l'alto per togliere la sicura; la manovra richiede due mani per essere eseguita senza spostare l'impugnatura della mano destra, e nell'eseguirla si rischia comunque di premere il famigerato pulsante di sgancio del caricatore.

Poi, come se non bastasse, almeno su questo esemplare, scarrellando in modo corretto (ovvero senza riaccompagnare il carrello in chiusura) con la sicura inserita, questa si sposta in modo appena percettibile, ma sufficiente a liberare la leva di trasmissione dello scatto, ed il cane cade premendo il grilletto anche se la leva della sicura sembra correttamente abbassata.

Non resta che aggiungere che l'avviso di arma scarica affidato alla suola dell'elevatore ha un valore puramente teorico per comprendere che quella percorsa non è stata esattamente la strada diretta al Paradiso ...

Perché un Istituto di Vigilanza dovrebbe far acquistare al proprio personale un'arma che solo apparentemente è un miglioramento (marginale) di un prodotto che ha fatto il suo tempo?

Certo, il prezzo d'acquisto per il cliente finale è una frazione di quello richiesto per quelle che al tempo sono le armi ai vertici della categoria, ovvero le Beretta 84/85 F.

E se si è ben coscienti dei limiti dello stipendio corrisposto al proprio dipendente si può essere portati, prima di dare indicazioni al personale, a valutare seriamente che probabilità ci sono che l'arma resti in fondina per tutti i suoi giorni a venire, se non per essere utilizzata per le esercitazioni di legge.

Molto portata, per niente usata: ma chi può dire che quel "per niente" non diventi "raramente", o anche solo "una volta sola"?

Lesinare su uno strumento al quale affidare la propria vita significa esporre questa ad un rischio maggiore.

Oggi, fortunatamente, esistono strumenti che ad un prezzo a volte inferiore alla media (questione di volumi venduti!) possono fornire prestazioni che non sono inferiori alla media; e non è un caso se è uno di questi strumenti che la bella signora citata in apertura di queste note preferisce oggi avere al suo fianco.

 

 

Lunghezza totale  165 mm
Altezza totale   123 mm
Lunghezza canna  90 mm, spinata al fusto
Peso (arma scarica)  500 grammi (fusto in lega leggera)
Capienza del caricatore  7 colpi (9 mm Browning Short)
Funzionamento  Semiautomatico, chiusura a massa, cane esterno, singola azione
Mire  Mirino e tacca di mira fissi sul carrello
Calibro  9 mm Br. Short (versioni anche in 22 l.r. e 7,65 mm Browning)
Velocità ed Energia Cinetica alla bocca 300 m/s - 270 Joule (9 mm Browning Short)

Note

[1] Un catalogo del 1985 sposta indietro la data di fondazione al 1721. Queste corse all'indietro nel tempo, a risalire gli alberi genealogici, mi hanno fatto sempre un po' sorridere, perché vanno ricercati in anni molto più vicini ai nostri gli eventi che portano una realtà produttiva e/o commerciale ad essere quello che è, poco contando l'influenza di un artigiano anche animato da ambizioni ma che comunque si limitava a smartellare su un'incudine alcune centinaia di anni fa. Se poi dovessimo prendere per buono un conteggio fatto sulla mera discendenza, a ridimensionare certi viaggi nel tempo dovrebbe bastare l'osservazione che l'intera razza umana attualmente popolante la faccia della Terra dovrebbe discendere da meno di una decina di femmine irsute che si esprimevano a grugniti ed occhiatacce. Che senso ha scrivere su tutti i cataloghi di tutti i prodotti "Casa fondata nel 400.000 A.C."?