Beretta Modello 34 e Modello 35

Scheda di Pat - arma fotografata della sua collezione privata.

Quest'arma è un mito, ma la sua scheda non sapevo proprio come farla. Mi pareva di trovare solo motivi (scuse?) per non scrivere nulla. Tanto per cominciare, quella che ero in grado di illustrare con le foto era solo la “sorella minore” della coppia, la Beretta 35 in calibro 7,65 mm. E come se non bastasse, si tratta di un’arma di produzione postbellica, anche se risalente al primissimo dopoguerra, e destinata al mercato civile. Infine, ed era quello che consideravo l’ostacolo maggiore, le semiautomatiche Beretta sono difficili da trattare singolarmente, perché in realtà tracciano un percorso di sviluppo continuo che, attraverso progressive innovazioni tecniche, ha portato dagli iniziali modelli del 1915 ai primi passi verso le più moderne realizzazioni. E proprio partendo da questa difficoltà ho trovato la soluzione al problema. Se il limite era dato dalla mancanza di questo percorso, non mi restava che tracciarlo io. Ho quindi realizzato una tabella dove sono illustrate le caratteristiche di tutte le pistole Beretta dal 1915 al 1951 (escluse alcune varianti e serie limitate che non hanno comunque apportato innovazioni tecniche significative) e che consente di seguire agevolmente la loro evoluzione. La trovate qui. (Le immagini che la accompagnano sono in parte mie ed in parte, come al solito, trovate chissà dove. Se qualcuno ritiene di avere dei diritti su di esse, non ha che da farmelo sapere e provvederò a sostituirle.) A questo punto, gli altri due ostacoli non reggevano più: la Beretta 34 e la 35, a parte il calibro, sono identiche e, quindi, le foto di una valgono anche per l’altra; inoltre, la mia 35 è postbellica perché mi è stata regalata da un amico ed i regali non si cedono né sostituiscono, per cui – fino a quando la legislazione non consentirà di avere in collezione due esemplari di uno stesso modello – non ne avrò mai una più vecchia. Vorrà dire che mi cercherò una 34 datatissima… :-)

Vediamo quindi storia e gloria di due pistole che in realtà si possono considerare come una sola.

Nel 1933, le forze di polizia italiane avevano presentato alla Beretta un’esplicita richiesta di un’arma corta caratterizzata da ingombro minimo, meccanismo semplice e robusto e impiego di una cartuccia dotata di un buon potere d’arresto. La casa gardonese, grazie al lavoro del progettista Tullio Marengoni, rispose con una pistola che rappresentava non solo l’evoluzione del modello immediatamente precedente (il 1931), ma il culmine del percorso progettuale iniziato nel 1915, e che, riunendo le migliori soluzioni adottate sino ad allora nelle sue armi, raggiunse livelli di semplicità, affidabilità assoluta in ogni condizione e robustezza che spinsero in seguito molti autori a considerarla una delle migliori pistole impiegate nella seconda guerra mondiale. Molti altri non condividono questa opinione, ma motivano il proprio dissenso soprattutto con il calibro dell’arma, il 9 corto (o .380 ACP o 9x17), ritenuto fortemente limitato per l’impiego militare e sicuramente non all’altezza di quelli impiegati da altre nazioni belligeranti, quali Germania e Stati Uniti. Tuttavia, occorre tenere presente che la scelta italiana non fu motivata da ragioni di carattere tecnico, ma unicamente da considerazioni economiche, che imposero da subito la rinuncia ad una cartuccia dalle prestazioni veramente elevate. I principi dell’economia e della semplicità vennero tuttavia soddisfatti dalla Beretta in maniera eccezionalmente completa. La pistola è realizzata con poche parti (solo 39) studiate in modo da poter essere fabbricate con un numero di lavorazioni meccaniche inferiore a quello occorrente per la grande maggioranza delle altre semiautomatiche dell’epoca, ma senza che ciò ne faccia un’arma rozza o dal funzionamento poco sicuro; anzi, alle comuni distanze di impiego pratico è anche dotata di una buona precisione. Proprio grazie alla loro semplicità intrinseca queste armi non subirono mai un calo delle prestazioni e della sicurezza, neppure negli anni peggiori della produzione (1944-45), quando le esigenze della guerra imposero uno scadimento qualitativo che però risultò limitato unicamente al grado di finitura esterna. Nell’intero impianto progettuale, l’unico elemento che giustifica qualche riserva è il sistema di sicura, che si limita a bloccare il grilletto. In ogni caso, al di là delle discussioni accademiche, quello che è certo è che il giudizio positivo fu condiviso da molti militari delle forze alleate, per i quali la nostra 34 costituiva una preda bellica molto ambita, anche in vista di un suo futuro impiego in ambito civile: in previsione di un uso come arma da difesa, il suo principale difetto, il calibro, veniva infatti compensato dalle notevoli doti di occultabilità, leggerezza e semplicità d’uso. Non è un caso che gli americani coniassero per lei il soprannome di “mighty mite”, che si potrebbe tradurre come “piccola e tosta”.

Subito dopo la sua immissione sul mercato l’arma venne adottata non solo dalla polizia, che l’aveva richiesta, ma anche dalle Forze Armate italiane, che negli anni assorbirono la massima parte della produzione; il resto prese la via della Romania (con una commessa di circa 40.000 pezzi nel 1941), dell’esercito tedesco (nel periodo della RSI, dal 1943 al 1945) e del mercato civile, soprattutto statunitense. Inizialmente venne assegnata agli ufficiali ed agli appartenenti ad alcune truppe scelte e fu impiegata su tutti i fronti in Africa, Europa e Russia, dimostrandosi sempre affidabilissima in ogni clima. La produzione terminò solo nel 1980, raggiungendo il totale di circa 1.080.000 esemplari. Nel nostro Esercito è rimasta in servizio per moltissimi anni ed è stata considerata arma da guerra fino alla fine degli anni ’80. Proprio per sfruttare l’effetto della liberalizzazione del calibro, nel 1991 la Beretta realizzò con alcuni “fondi di magazzino” un lotto di circa 2000 pezzi, destinato al mercato dei collezionisti; le recenti immissioni in commercio di armi più o meno “commemorative” realizzate con componenti d’epoca non sono quindi un’idea del tutto originale..., ma – personalmente – sono convinto che quando mi procurerò una 34 (o una 1911, tanto per fare un esempio “a caso”) sarà un pezzo “d’annata”, perché, a mio modo di vedere, queste rivisitazioni non hanno una storia da raccontare.

La modello 35 non è altro che la versione in calibro 7,65 mm Browning della sorella maggiore, dalla quale differisce unicamente per le dimensioni dei componenti condizionati dal calibro (canna, caricatore, e carrello): le restanti parti risultano infatti intercambiabili fra i due modelli. Nonostante il nome che porta, la produzione dei primi 1000 pezzi iniziò alla fine del 1934, ad ulteriore conferma del fatto che le due armi furono davvero “gemelle” sin dalla nascita ed anzi già nella mente dei loro ideatori, benché la seconda guardasse con più attenzione al mercato civile. Forse anche grazie alle sue doti di maggiore leggerezza, la pistola venne data in dotazione, oltre che all’Esercito, soprattutto all’Aviazione ed alla Marina. Inoltre, fu venduta alla Finlandia e fornita al “Comando germanico”. In totale ne furono realizzati dalla Beretta 525.000 pezzi. È interessante notare che, mentre la 34 venne considerata un’arma del tutto nuova, con una propria serie di numeri di matricola, la 35 fu intesa come una nuova versione del precedente modello dello stesso calibro, il 1931, del quale prosegue la serie matricolare. Inoltre, risulta accertata l’esistenza di alcune di queste pistole realizzate al di fuori degli impianti della casa gardonese, presso la ditta Armaguerra di Cremona; non si dispone però di dati relativi a questa produzione, immatricolata con numeri e lettere, secondo lo schema germanico, e non con i soli numeri progressivi utilizzati sino a quel momento dalla Beretta. Del resto, lo stesso tipo di numerazione alfanumerica venne impiegato dai tedeschi anche per contraddistinguere le 34 e 35 prodotte dalla stessa Beretta sotto la loro occupazione, il che complica ulteriormente lo studio delle serie matricolari. Si ignora se l’arma sia stata fatta realizzare anche presso altri impianti.

In entrambi i calibri, la meccanica della pistola può essere visualizzata, almeno in parte, rimuovendo la guancetta del lato sinistro, come si vede nella foto sottostante:

 

 La qualità dell’immagine non è eccelsa, e me ne scuso; per farmi perdonare, e per facilitare la comprensione della descrizione che segue, aggiungo quindi uno schema a colori dell’arma:

 Dal punto di vista tecnico, si tratta di una tipica pistola semiautomatica a chiusura labile, in cui la tenuta fino al momento in cui le pressioni all’interno della canna sono scese a valori accettabili è assicurata unicamente dall’inerzia del carrello-otturatore, dall’azione della molla di recupero e dalla spinta del cane, senza alcun tipo di chiusura stabile. L’intero ciclo di sparo, rinculo, espulsione del bossolo, armamento del cane, compressione della molla di recupero, spinta del carrello in avanti, cameratura di una seconda cartuccia e ritorno in chiusura avviene quindi senza alcuna particolarità degna di nota. Sparato l’ultimo colpo, l’elevatore blocca il carrello in posizione di incompleta apertura; questo fatto costituisce un utile segnale di arma scarica, ma rende difficile l’estrazione del caricatore (contrastata dalla spinta della molla di recupero) e fa sì che, una volta che questo viene sfilato, l’otturatore si chiuda di colpo. Occorre però tenere presente che un sistema di blocco del carrello ad arma scarica sarebbe stato sicuramente utile, ma anche costoso e quindi contrario ai principi stessi su cui si fondò la progettazione della pistola. Per estrarre più agevolmente il caricatore è possibile (e consigliabile) inserire la sicura, ruotandola di 180°, e poi tirare completamente indietro il carrello: in questo modo la leva funge da hold-open, andando ad impegnarsi nell’apposita tacca del carrello e bloccandolo in posizione di completa apertura, sottraendo il caricatore alla sua azione di ritegno.

La leva della sicura resta fissata nelle due posizioni di “sicura” e “fuoco”, evitando ogni possibile posizione intermedia, grazie all’azione della molla di recupero, che spinge con la propria asta di guida sul traversino della sicura stessa. Quando è inserita, quest’ultima blocca esclusivamente il grilletto, lasciando liberi catena di scatto, cane e percussore. Questo è, dal punto di vista progettuale, l’unico vero aspetto criticabile dell’arma; bisogna però tenere conto del fatto che si tratta di una pistola pensata settant’anni fa per il porto in fondina, quasi sempre senza colpo in canna, per scopi militari. Il perno della sicura svolge anche un’altra importante funzione: quando si trova in posizione di fuoco blocca la canna, inserendosi in un recesso cilindrico del suo zoccolo, mentre quando è in posizione di sicura consente allo zoccolo stesso di scorrere nella coulisse ricavata nel castello e permette quindi lo spostamento all’indietro e la successiva rimozione della canna, che costituisce il primo passo per lo smontaggio dell’arma. Poiché la coulisse è lunga solo 1,5 cm, è stato ipotizzato che le operazioni di smontaggio/rimontaggio ripetute e troppo frequenti possano essere all’origine della comparsa di “giochi” capaci di compromettere la stabilità del sistema canna/castello e, quindi, influire negativamente sulla precisione dell’arma. Tuttavia, non ho mai avuto modo di osservare personalmente la comparsa di un difetto di questo genere. In realtà, i veri problemi di precisione della pistola sono da imputare all’elevata durezza dello scatto, una caratteristica deliberatamente voluta per ragioni di sicurezza, ed alla presenza di una molla del cane molto robusta, volta ad assicurare una percussione sufficientemente potente su qualsiasi tipo di munizione.

Nello schema a colori riportato più sopra, il sistema costituito da molla del cane, cane e leva di scatto è illustrato proprio male; tuttavia, non ho trovato di meglio, anche perché si tratta di un’immagine che deriva da un disegno originale della Beretta. Mi è sembrato quindi opportuno aggiungere un’altra immagine, in cui questi componenti sono visualizzati da soli, nella posizione che hanno nell’arma montata. È questa:

 

La molla di scatto, della cui durezza abbiamo già avuto modo di parlare, è alloggiata nella parte posteriore dell’impugnatura e, come si può vedere, agisce da un lato sul cane e dall’altro sulla leva di scatto, che viene spinta dalla sua azione ad andare ad impegnare la noce del cane. Quest’ultimo è dotato di due denti, che gli permettono di assumere sia la posizione nella monta di sparo che la mezza monta o monta di sicurezza, nella quale la leva di scatto risulta bloccata. Questa caratteristica è stata probabilmente ideata per sopperire in parte alla scarsa efficienza della sicura vera e propria, che agisce bloccando unicamente il grilletto. La durezza dell’intero sistema e la presenza della mezza monta possono forse essere sufficienti ad evitare gli spari accidentali che si possono verificare manipolando l’arma sotto stress, ma non a garantire la totale assenza di rischi in caso di porto prolungato della pistola con la cartuccia in canna, soprattutto tenendo conto che, se si ha l’accortezza di tenere il cane preventivamente armato (in modo da non dover vincere anche la resistenza della relativa molla), in caso di necessità è possibile scarrellare in una frazione di secondo, camerando la prima cartuccia con lo stesso movimento con cui si estrae l’arma e con l’unico handicap di dover utilizzare entrambe le mani. Per i tempi in cui l’arma è stata progettata, tutto ciò risultava più che sufficiente; il confronto con le armi moderne, piene di sicure automatiche di ogni tipo, sarebbe ingiusto ed improponibile.

La leva di scatto viene azionata, attraverso una piastrina interfulcrata o bilancia, da una barra di comando dalla caratteristica forma a “T” rovesciata, comparsa per la prima volta nel modello 23, che funge da disconnettore: il suo ramo verticale è infatti alloggiato in una scanalatura del carrello che, quando questo si sposta nel suo moto retrogrado, agisce come un piano inclinato e provoca lo spostamento verso il basso della barra, fino a determinare la perdita del contatto fra questa e la bilancia; per riportare l’arma in condizioni di sparo sarà quindi indispensabile allentare la pressione sul grilletto.

 

E adesso, per completare le caratteristiche tecniche, qualche numero:

Modello

34

35

Calibro:

9 mm corto / .380 ACP

7,65 mm Br. / .32 ACP

Numero di colpi

7

8

Lunghezza complessiva

150 mm

146 mm

Altezza

123 mm

123 mm

Spessore

30 mm

30 mm

Peso (arma scarica, con caricatore)

625 g

620 g

Lunghezza della canna

89 mm

88 mm

Rigatura

6 righe destrorse

6 righe destrorse

Lo smontaggio di queste pistole risulta estremamente semplice, riconducibile a tre sole fasi:

Prima di iniziare, estrarre il caricatore e scarrellare a vuoto per assicurarsi che l’arma sia scarica. Se il caricatore è vuoto ed il carrello è bloccato in apertura dopo l’ultimo colpo, si può passare direttamente al punto successivo.

Se necessario, armare il cane; poi ruotare la leva della sicura  in posizione di inserimento ed arretrare completamente il carrello fino a che non si impegna nella leva stessa, restando bloccato in apertura. Se non lo si è fatto prima, estrarre il caricatore. Spingere la canna all’indietro per farla scivolare lungo la coulisse realizzata nel castello fino a liberarla.

Una volta libera, la canna può essere sollevata ed estratta attraverso l’ampia finestra di espulsione, nel modo illustrato nella figura. A questo punto, tenendo frenato il carrello (attenzione: si trova sotto l’azione della molla di recupero!) si ruota nuovamente la sicura in posizione di sparo e poi si accompagna il carrello in avanti, fino a sfilarlo dalle guide. Si estraggono la molla di recupero e la relativa asta guidamolla. Volendo, si può sfilare la leva della sicura dal castello (cosa che nella foto sottostante non è stata fatta). Per lo smontaggio da campagna non occorre altro.